Lo spettro della povertà (e le sue virtù)
Dovremo adattarci ad avere meno risorse. Meno soldi in tasca. Essere più poveri. Ecco la parola maledetta: povertà. Ma dovremo farci l’abitudine. Se il mondo occidentale andrà più piano, anche noi tutti dovremo rallentare. Proviamoci con un po’ di storia alle spalle, con un po’ di intelligenza, di umanità davanti. [...] La scelta è tra essere poveri nella consapevolezza della propria condizione storica e antropologica, da un lato, e dall’altro essere poveri nell’assoluta inconsapevolezza di ciò che è avvenuto, nella sorpresa dell’indicibile, e quindi soggetti a tutte le frustrazioni possibili. Occorre accingerci a costruire una cultura, forse non della povertà, bensì della minore ricchezza.1
Con queste parole, qualche tempo fa, Edmondo Berselli concludeva un denso saggio sull’economia giusta.
“Povertà” è parola maledetta, fantasma che aleggia. Nella “seconda Età dell’Argento”,2 la nostra, la povertà è relitto che sgomenta.
Effetto non dissimile doveva provocare il suo ingresso in scena, a metà spettacolo, sugli spettatori ateniesi del Pluto di Aristofane, nel 388 a. C.3 Livida, lo sguardo tragico e folle, Penía, la povertà personificata, è “l’essere più spaventoso che c’è al mondo”. I suoi doni, dice il protagonista della commedia, sono:
[...] bambini affamati, vecchie vocianti. Eserciti di pidocchi, zanzare, pulci, che ci ronzano attorno alla testa e ci svegliano dicendo: “Alzati, vai a far la fame!”. E invece di un mantello, uno straccio; invece di un letto, un giaciglio di giunchi pieno di cimici che ti tengono sveglio; invece di un tappeto, una stuoia marcita; invece di un cuscino un sasso sotto la testa. Mangiare non pane, ma gambi di malva; non focacce, ma foglie di ravanello. Per sedile, un otre sfondato, per madia la doga di una botte scassata.4
Un quadro di privazioni e di miseria che acquisisce maggiore pregnanza se si pensa che una prima redazione, perduta, della commedia risaliva al 408 a. C.: un momento di grande rischio per l’impero di Atene, minacciato dall’alleanza fra Ciro il giovane e lo spartano Lisandro, ma che toccava comunque, nel suo realismo comico, una corda sempre dolente, in un territorio cronicamente esposto al rischio della sussistenza.5
Molto interessante la battuta successiva, in cui Penía si dissocia da quel quadro terrificante:
Non hai descritto la mia vita, ma quella dei mendicanti [...]. Non è questo il mio modo di vivere, grazie a Dio, e neanche lo sarà mai. La mendicità è vivere senza niente; il povero vive risparmiando e lavorando, senza il superfluo, ma non gli manca il necessario.6
Non è affatto sofistica la distinzione fra πτωχοῦ βίος, la vita del mendico, e πένητος ζῆν, la vita del povero: πτωχεία è la mendicità (l’etimologia si collega a πτήσσω, ‘spavento’ o intransitivamente ‘mi spavento’, πτόα, ‘terrore’, dalla radice ind. e. *pet); πενία è invece la povertà, il bisogno (da πένομαι, ‘mi affatico’, ‘mi affaccendo’, dalla radice ind.e. *pen, che comporta ‘tensione’): anche nella lingua latina, come risulta da uno spoglio del Thesaurus e degli altri lessici, paupertas comporta uno stile di vita austero e parco, al limite della sussistenza, mentre egestas è deprivazione totale.7
La povertà (non la mendicità) è incredibilmente difesa da Penía in un agone comico abbastanza anomalo da cui essa esce vincitrice a spese del protagonista Cremilo.8 Costui era un contadino onesto e povero, che si era proposto -all’inizio della commedia- di ridare la vista al dio cieco della ricchezza, Pluto, ‘ridistribuendolo’ secondo criteri morali.9 Allo scopo, il vecchio dio è condotto nel santuario di Asclepio, dove, fra ciarlatanerie varie, i malati vengono curati nel sonno e dove egli in effetti prodigiosamente guarisce. Tutti adesso sono felici e benestanti, ma anche (tema caro ad Aristofane) dimentichi degli dei. Una frettolosa pacificazione mette rimedio alla situazione e, a sancirla, il dio viene infine portato in corteo al tempio di Atena. Prima della guarigione del dio, adirata per essere stata ingiustamente messa da parte, irrompe tuttavia in scena Penía a sostenere le sue ragioni in un confronto dialettico. Nell’agone, dunque, essa presenta la condizione del povero come il principio generativo delle attività umane, un formidabile motore della divisione del lavoro e la base di ogni economia: se mancasse la povertà, nessuno farebbe più nessun lavoro, eserciterebbe alcun mestiere.
L’idea è drammaturgicamente perdente: infatti, la realizzazione del progetto di ridare la vista a Pluto non ne tiene alcun conto e l’agone si conclude con una generica promessa di Penía di ritornare fra gli umani; ma essa è argomentativamente, cioè razionalmente, vincente. Ciò è confermato da molti indizi testuali, già sottolineati dagli studiosi: la ‘posizione’ vantaggiosa di Penía nell’agone, che parla per seconda; la fondatezza delle sue obiezioni, che regolarmente non vengono ‘saturate’ dalle risposte dell’avversario e quindi sono sviluppate in ulteriori repliche; l’esplicito riconoscimento di inconfutabilità da parte dell’avversario; la formula ‘concessiva’ delle domande che le sono rivolte (“ammesso e non concesso che”), l’insulto e la mera aggressione verbale di cui è infine oggetto, significanti la resa logica dell’avversario e culminanti nella battuta finale: Οὐ γὰρ πείσεις, οὐδ’ ἢν πείσῃς, “non mi persuadi neanche se mi persuadi”.10
Tale vittoria, in realtà, non fa che riconoscere i pregi argomentativi di un’idea molto comune, per non dire pervasiva, in molta parte del dibattito culturale ateniese del V secolo a. C. L’idea, cioè, del ‘giusto mezzo’, in base alla quale il criterio comune di giudizio consiste nello scartare gli estremi di un comportamento o un valore, per attestarsi al centro di esso.11 In questa prospettiva, la mossa semplice e vincente di Penía consiste nel riconfigurare il campo argomentativo, guadagnando la posizione centrale e scalzando verso l’estremo negativo, al proprio posto, πτωχεία, la mendicità. Penía e Pluto, raffigurati poeticamente come altrettante divinità, o ipostasi, che presiedono ai destini degli uomini, fronteggiandosi drammaturgicamente si spartiscono in modo logicamente perfetto il campo dell’azione umana; in realtà descrivono fenomeni non discreti, che pur potendo assumere una intera gamma di valori, restano un continuum, che è possibile percorrere da un estremo di massima negatività ad uno di massima positività. In tale bi-polarizzazione, l’azione umana può esperire entrambi i versanti, sperando di aver parte del secondo -la ricchezza- pur sapendo che potrà incappare anche nel primo.12 Ecco dunque che è sufficiente spostare l’asticella della negatività più in basso, verso la mendicità, per far apparire accettabile e in fondo desiderabile la povertà, in quanto sintesi ‘mediana’ fra i due nuovi estremi: ricchezza e povertà-mendicità. Punto di equilibrio sul quale attestarsi e dal quale tendere all’una, temendo l’altra.13
Si tratta di un’idea molto ‘politica’, integrata, della povertà (e della ricchezza), che riproduce, ma al contempo espone al dubbio comico, un modello comune e ‘naturale’ che mette in sequenza il bisogno/mendicità e la povertà/technai.14 La povertà è quel rimedio, veicolatore di stimoli e di incentivi all’esercizio di una techne, che consente di superare ed esorcizzare tanto la mendicità quanto l’eccesso di ricchezza.
Vediamo in dettaglio. Nel suo primo intervento, Penía si esprime così:
Vecchi creduloni, che vi fate così facilmente allontanare dalla salute, compagni di chiacchiere e di sciocchezze, non sarebbe affatto utile per voi, se avvenisse ciò che desiderate. Se Pluto riacquistasse la vista e si distribuisse ugualmente fra tutti, gli uomini non eserciterebbero più né arti né mestieri (οὔτε τέχνην [...] οὔτ’ ἂν σοφίαν). Nessuno farebbe più il fabbro, il carpentiere, il sarto, il tornitore, il calzolaio, il muratore, il lavandaio, il conciatore. Nessuno lavorerebbe più la terra con l’aratro, né raccoglierebbe i frutti di Demetra, quando fosse possibile vivere oziosamente, infischiandosene di tutto.15
I lavori -dice Penía- esistono per soddisfare i bisogni personali e comunitari, come risposta alla mendicità.
Nel progetto di Cremilo, la strada verso la ricchezza non passava né dalla povertà né dalle technai.16 Nel mondo alla rovescia della commedia non ce n’è alcun bisogno. L’opzione espressa da Penia è invece che sia distribuita ugualmente non la ricchezza ma la povertà. Sugli uomini ‘ugualmente ricchi’ incombe infatti la minaccia della dis-integrazione: ognuno sarà costretto a fare interamente da sé il lavoro che di norma è diviso fra i membri della società in una sorta di autarchia originaria.
È invece attraverso la distribuzione egualitaria di Penía che può costituirsi la società: essa porta con sé un bagaglio di relazionalità e dinamicità che Pluto non possiede.17 Ma neppure πτωχεία. Penía e le technai occupano il centro, il desiderato giusto mezzo, in virtù del loro grado di relazionalità e di comprimibilità: sono valori medi, perché suscettibili di essere compressi fino alla misura richiesta, né troppo né troppo poco. Penía governa infatti la sfera del vendere e del comprare, attività che comportano la compartecipazione di un produttore e di un destinatario in grado di misurarsi reciprocamente: l’artigiano aristofanesco, terrorizzato dalla mendicità, non ha nulla in comune con il suo predecessore soloniano, il solitario “esperto delle arti di Atena e di Efesto” incapace di orientare al successo la sua arte o di prevederne l’insuccesso; egli invece fatica e mette a rischio la sua vita quel tanto che è necessario a ricevere un compenso in denaro. Penía è davvero adatta ad essere materia di distribuzione ugualitaria in quanto intrinsecamente orientata alla misura: l’eccesso di soldi produce, come accade a chi si arricchisce a spese pubbliche, immediatamente disonestà e riprovazione societaria -lo stesso Cremilo deve ammetterlo-18 la povertà è invece stimolo alla virtù: “con me sta la moderazione, con Pluto l’eccesso”.19
Questo paradigma, agli inizi del IV secolo, sembra largamente consolidato. Ma, e l’ombra della sua in-salienza drammaturgica lo dimostra, la sequenza che assume a fondamento è tutt’altro che ‘naturale’ ed anzi ha proprio il carattere artificiale di paradigma. Il legame mendicità-bisogno → technai non sempre è stato concepito come saldo e indiscutibile ed anzi tale legame è per molti versi una risposta ad un problema: perché esistono le technai? Alcune delle quali appaiono anzi inutili o comunque non producono ricchezza materiale. Tutt’altro che naturale è anche la collocazione di mendicità e povertà su una medesima linea di cui esse individuerebbero gradi di intensità differente. Le attitudini, lo stile di vita, l’autopresentazione del mendico e del povero sono tutt’altro che analoghi. In altri termini, è ben possibile che prima di far parte di un unico quadro, insieme con Pluto, povertà e mendicità fossero entità assolutamente separate e diversamente connotate.
Aristofane/Penía propone la sequenza bisogni → technai, mostrando l’implausibilità del suo opposto: senza bisogni, cioè quando tutti i bisogni siano stati soddisfatti, non ci sono technai. Una quantità “giusta” di bisogno è indispensabile alla società (ma superflua nel mondo comicoonirico, in cui è meglio essere tutti ricchi). Ma è significativo che la mancanza di bisogno sia pertinente non soltanto al mondo in cui si è tutti ricchi, ma anche a quello dominato dalla mendicità.
Pericle e la vita quotidiana
L’idea che la povertà sia un motore di attività, in senso lato ‘trasformative’, finalizzate alla soddisfazione di bisogni non è tuttavia invenzione di Aristofane. Essa è anzi ben attestata nella seconda metà del V secolo, a partire da Pericle.
Fra le peculiarità della way of life ateniese, secondo il Pericle tucidideo dell’Epitafio, c’è la natura composita e processuale della valutazione della persona. Come nel rating che le moderne agenzie infliggono ai soggetti economici di tutto il mondo, nella valutazione di un cittadino ateniese ciò che conta non è la condizione di partenza, quanto la prospettiva di miglioramento, di riconoscimento, di affermazione sociale. Il cittadino,
[...] in base alla valutazione (κατὰ τὴν ἀξίωσιν), a seconda che consegua credito in qualche attività, non viene preferito in base alla ricchezza più che in base alla sua qualità, né, d’altro canto, viene impedito dall’oscurità del suo ruolo sociale (ἀξιώματος), se è in grado di rendere qualche buon servizio alla città.20
E, poco oltre, di sentore esiodeo:
Non è vergogna ammettere di essere poveri, è vergogna non fare nulla per uscire dallo stato di povertà.21
Pericle accetta e assolve la povertà dotata di un sostanziale requisito: la provvisorietà. Se temporanea, la condizione di povero può essere un oscuro inciampo privato, da cui preferibilmente uscire e da trarre alla luce della ribalta pubblica. Nello spazio aperto della polis, si è apprezzati per ciò in cui ci si distingue, in un processo valutativo continuo. Per la povertà-mendicità come condizione permanente, stabile, accettata -va da sé- non c’è alcun posto possibile. È tuttavia significativo che nel superamento della possibile povertà personale l’accento non cada -come per Esiodo- sulla fatica, sulla sofferenza: il povero che cerca di superare la propria povertà è chiamato tanto al lavoro quanto alla sua sospensione. Il riposo festivo è per lui un diritto personale, ma anche in un certo senso un dovere civico, un’occasione per attivarsi in qualcosa, per valutare ed essere valutato per le proprie qualità.
Anche con l’intelligenza abbiamo trovato moltissime occasioni di riposo alle fatiche, usando farlo con gli agoni e con i sacrifici religiosi che si tengono durante tutto l’anno.22
È un’etica del lavoro in cui non è la fatica in sé a produrre la virtù, ma anche la sua sospensione e la dedizione ad un fare e un produrre culturali. Virtù è sia la ricchezza materiale dei liberi artigiani, sia la ricchezza immateriale di un clima festoso e piacevole, di un’abitazione gradevole, di una presenza attiva e consapevole.23 Occorre non sottovalutare l’enfasi sulla capacità di condurre una vita spensierata, rilassata e distesa, nella misura in cui essa testimonia l’imbrigliamento di un eccesso -quello esiodeo della fatica e del ponos- che in quanto eccesso è nemico di un sistema che vive di pesi e contrappesi, smussamenti e incentivi.
Il linguaggio dell’epitafio, come è stato notato, è percorso dall’esaltazione della gioia, del godimento, del successo sociale, della realizzazione fisica e psicologica che in qualche modo anticipa aspirazioni diffuse nel mondo moderno (“un modo ʻmodernoʼ -secondo Musti- all’interno del mondo antico di vedere le cose”)24 e dal rifiuto del modo di vita spartano, incentrato su esercizi e allenamenti.25 Si tratta di una presa di posizione esplicita, antiascetica e, per così dire, antisecessionista. Antiascetica, perché rifiuta la strada in salita, l’etica della pazienza; antisecessionista, perché così facendo esclude le scelte elitarie, le vie percorribili da pochi perché eccessivamente faticose, non alla portata dell’uomo comune, e con esse anche “quell’intima soddisfazione della virtù che fa sentire ai virtuosi di essere diversi dagli altri”.26 Un ideale antieroico, di valorizzazione del quotidiano durevole.
Il tempo del cittadino ateniese si misura sulla “giornata”, in cui, tolti gli obblighi civili e militari -i quali vengono significativamente compressi e attenuati- e compiuto il lavoro necessario ad aver corrisposta una buona paga, resta una grande quantità di spazio personale in cui vivere a modo proprio, senza che ciò comporti cattiva fama o sanzione collettiva.27
Gli Ateniesi -sembra voler dire Pericle- non vivono evidentemente nell’Età dell’Oro, ma non possono più nemmeno considerarsi cittadini dell’Età del Ferro: nuovi standard di produzione e afflusso di merci, di divisione del lavoro, di deregolamentazione e liberazione (dal sospetto, dalle esigenze della difesa, dalla minaccia continua della guerra, dal divieto) si sono sufficientemente stabilizzati da consentire il superamento delle forme tradizionali di pessimismo. L’immaginario emancipatore sovrasta e copre la realtà penosa della vita dell’homo laborans. Risulta ridimensionato, in tale quadro, il momento “duro” della produzione e il punto di vista del produttore: le technai -volte al soddisfacimento di bisogni sociali di alto contenuto intellettuale- sono considerate dal punto di vista dei fruitori. Fruitori di beni provenienti da altri paesi e dal proprio, di gare e riti, di arredi e spettacoli, di bellezza e di sapienza visibili e accessibili a tutti. Non vi è spazio né per la techne praticata individualmente in obbedienza ad un’esigenza interiore (che ancora Sofocle conosceva), né per l’affaticarsi in vista del soddisfacimento di bisogni puramente materiali. Al limite, il problema della pura e semplice sussistenza è subordinato al bisogno di istruirsi, dibattere, essere ricordati.
Penía non fa dunque che riprendere l’idea periclea delle technai come risposta al bisogno e alla povertà: esercitarle, con moderazione e in un contesto di relazioni, serve a uscire dalla povertà e al contempo dall’oscurità sociale, riscattandosi. Diversamente, il mondo comico di Cremilo privilegia la fruizione di beni più “bassi” e con tendenza all’eccesso e al paradosso; ma l’orizzonte è comune: chi produce il benessere della polis ha diritto legittimo al godimento nelle sue forme socializzate -feste, spettacoli, benessere privato- e al potere nella sua forma “democratica”. Ovvio corollario è l’inemendabilità di tutte le forme di ozio, parassitismo, fannulloneria, improduttività. Ciò può apparire ovvio e naturale, e tuttavia lo è meno di quanto appaia. Eccezioni al paradigma o resistenze ad esso, come la contestata vittoria di Penía nel Pluto, lasciano intravedere la sua problematicità.
Eccezioni al paradigma: i dubbi di Socrate nella Repubblica
Riflessioni importanti per il nostro tema contiene il primo libro della Repubblica di Platone.28 Il libro si apre con Socrate che, su insistito invito di Glaucone, si reca con costui a casa di Polemarco dove trova il padre di lui, il ricco Cefalo, intento a compiere un sacrificio. Fra Socrate e Cefalo si svolge dunque un breve e significativo dialogo, dai toni garbati e affettuosi: i due parlano della vecchiaia, se essa sia o meno un momento difficile dell’esistenza. Socrate chiede ad un certo punto se la serenità con cui il suo interlocutore la sopporta così facilmente non sia, come molti ritengono, frutto delle molte consolazioni che solo la ricchezza può offrire. Il discorso si sposta così sulla ricchezza di Cefalo e sulla ricchezza in generale, o meglio sulla ricchezza come fine ultimo delle technai. Dopo aver ricevuto da Cefalo l’ammissione che ciascuno ama solo il denaro che ha prodotto, come il poeta ama i propri componimenti e il padre i propri figli (e cioè dopo aver escluso dal dibattito l’idea di ricchezza come condizione fissa, immutabile e slegata dall’azione di un soggetto), Socrate chiede quale sia il vantaggio di possedere la ricchezza e Cefalo risponde che, fra i vantaggi, il maggiore è il poter dire sempre la verità, l’essere in grado di restituire i debiti, il morire senza la paura di aver commesso ingiustizia. La ricchezza agevola e facilita la giustizia.29
Su questi temi la discussione prende avvio e continua anche in assenza di Cefalo, che lascia il posto a Polemarco. Si tratta ora di definire questa ‘giustizia’: le azioni menzionate da Cefalo -specialmente quella di restituire il debito- avverte Socrate, possono essere compiute giustamente o ingiustamente. A questa asserzione Socrate fa seguire un esempio, la cui artificiosità è tuttavia tale da gettare qualche ombra sul fatto che la posta in gioco sia semplicemente quella di definire i vantaggi della ricchezza. L’esempio è questo: se un tale prende in consegna delle armi da un amico sano di mente, nel caso in cui questi -perso il senno- ne richieda la restituzione, restituirle sarebbe giusto o sbagliato? La risposta corretta ovviamente è: sbagliato. Se ne può concludere che restituire ciò che si è ricevuto in pegno non sia possibile definirlo ‘giustizia’?30
L’idea del debito da restituire, del deposito da rendere è interessante per due motivi. Anzitutto essa, evocando la paura e l’ansia del debito non reso, riconferma l’idea aristofanea dell’arricchimento come processo di superamento della povertà terrificante, della priorità del non essere debitori; in secondo luogo, essa chiama in causa una tipologia di relazioni -quelle finanziarie, in cui i contraenti si pongono in modo simmetrico- come modello delle relazioni umane improntate a giustizia.
Occorre ricollegare questo passo, ma forse tutto il primo libro della Repubblica, al mito di Prometeo esposto da Protagora nel dialogo omonimo e già richiamato a proposito del Pluto. In quella discussione, il sofista aveva dimostrato come la polis potesse sopravvivere a se stessa soltanto improntando le relazioni fra i suoi membri ad αἰδώς e δίκη distribuite egualitariamente. Per volere di Zeus, questa distribuzione -che succedeva nel tempo ad una iniziale distribuzione diseguale operata da Epimeteo e da Prometeo- fornendo gli uomini di una dotazione uguale per tutti, li metteva finalmente in grado di stabilire quelle relazioni orizzontali, di reciprocità e responsionalità che costituivano infine la πολιτική τέχνη, la “virtù politica”.31
La possibilità di restituire il debito o di rendere un deposito, relazione orizzontale per eccellenza, può avere allora valore paradigmatico di una più vasta gamma di relazioni di reciprocità; relazioni pienamente politiche e orientate alla salvezza della città. Chi restituisce un debito è come colui a cui sono stati dati rispetto e giustizia in misura uguale. Le quali erano appunto virtù tese alla relazionalità, e garantivano rapporti orizzontali fra individui rispettosi e reciprocanti l’un l’altro. La ricchezza di Cefalo è allora non dissimile da quella dotazione uguale fornita da Zeus agli uomini lasciati sprovvisti da Prometeo: è una ricchezza mobile e dinamica (come la povertà di Penía), il segno del corretto inserimento nel tessuto politico-economico della comunità. Il ricco è uguale all’amico, anch’esso ricco, a cui occorre restituire ciò che ha prestato.
Ma, se le cose stanno così, e se dunque Cefalo e Protagora si trovano dalla stessa parte di Zeus spartitore egualitario, ciò implica che, nel caso del sofista, risulta anche pienamente giustificata la sua pretesa di offrire le proprie prestazioni professionali -ma Socrate dice: le proprie merci- ricevendo in cambio, in modo del tutto simmetrico, il compenso dovuto. Come Cefalo, Protagora è colui che vuole (ed è in grado di) non essere in debito né in credito, di andare sempre in pari con i suoi interlocutori, cui rende né più né meno di ciò essi hanno dato.32
Ed ecco dunque assumere pieno rilievo l’obiezione, apparentemente incongrua, di Socrate: e se il creditore o colui che ha dato in deposito fosse nel frattempo mutato? In relazione, per esempio, al suo stato di salute mentale? E ciò di cui avesse bisogno ora fosse diverso rispetto a ciò che ha in precedenza lasciato/depositato? Non sarà inutile ricordare che, a conclusione di quel dialogo, Socrate aveva detto di aver molto apprezzato Prometeo e di voler regolarsi come lui: ciò significa attraverso distribuzioni diseguali.33 Diseguali vuol dire anche, a mio avviso: sensibili alla diacronia. Infatti, colui il quale reputa giusto rendere esattamente ciò che ha ricevuto non tiene conto delle nuove evidenze che ogni partecipante immette nel processo relazionale e che la relazione stessa produce nel tempo; evidenze che rendono ogni interlocuzione nuova rispetto a ciò che la precede.
La relazione fra parlanti mostra con chiarezza questa peculiarità. A differenza di quanto accade fra il debitore e il prestatore, nella comunicazione orale ogni parlante immette nella relazione una ‘merce’ il cui valore non può essere stabilito in anticipo. Nessuno degli interlocutori può sapere, prima che la comunicazione abbia luogo, se e come comprenderà l’altro, se e come riconoscerà il significato che l’altro attribuisce alle parole di cui si serve e anche che significato egli stesso attribuirà alle proprie parole, che potrebbero apparirgli in una luce del tutto nuova proprio in virtù del suo relazionarsi all’altro (soprattutto se l’altro è Socrate).34 Un parlante potrebbe, dice forse Socrate, cambiare il suo modo di pensare (il suo modo di collegare azioni e parole) durante un’interazione dialogica o per esito di essa, e ciò svuota di senso l’idea di “restituire ciò è stato dato in deposito”. Egli potrebbe aver chiesto qualcosa di cui ha poi scoperto, nel corso della relazione, di non aver bisogno, o che addirittura sarebbe nocivo per lui ricevere. L’immagine di sé proiettata da un parlante all’inizio di una relazione comunicativa può divergere sensibilmente da quella finale e l’interlocutore, per interpretare davvero il suo ruolo, dovrebbe sincronizzarsi ai possibili cambiamenti o meglio contribuire a provocarli e a orientarli.
La reciprocità orizzontale delle transazioni finanziarie non può essere un modello per il problema della giustizia, la quale necessita di altri riferimenti. Nelle relazioni comunicative, la contrattazione di significati tende con tutta evidenza ad un fine che non è quello del mero ‘pareggio di bilancio’ fra interlocutori, ma che chiama in causa, invece, la ‘salute’ dei parlanti.
Dietro alla situazione -poco realistica- di colui che si trovasse a dover restituire delle armi ad un legittimo proprietario momentaneamente non più in possesso delle proprie facoltà mentali, ciò che vediamo è molto di più. Anzitutto, vediamo, l’educatore/sofista (Protagora) che dispensa a pagamento le sue cognizioni, ignaro e insensibile allo stato di salute del suo interlocutore/cliente e dunque senza sapere se le sue ‘merci’ effettivamente siano utili e o dannose per lui; egli è -secondo Socrate, ma non secondo la morale corrente- ingiusto.
Ma la posta in gioco è probabilmente più alta. Seguiamo l’argomentazione del primo libro della Repubblica. Socrate e Polemarco discutono se la giustizia sia “dare a ciascuno ciò che gli spetta”, quando, approfittando di una interruzione, Trasimaco irrompe violentemente nel dialogo, contestando a Socrate di limitarsi a fare domande e dire φλυαρία, sciocchezze, senza esporre con chiarezza e precisione il suo pensiero. Socrate, come già era accaduto nel Protagora, ha una forte reazione emotiva all’ingresso di Trasimaco: là si era trattato di un senso di smarrimento di sé provocato dal discorso lungo del sofista; qui è una reazione di paura e di sbigottimento: ἐξεπλάγην καὶ [...] ἐφοβούμην.35 Il filosofo comincia col contestare a Trasimaco proprio il carattere crono-insensibile del suo (pseudo) dialogare. Sbarrando a Socrate la strada, con una definizione preventiva di “sciocchezze” per le sue obiezioni future, e quindi stabilendo in anticipo quali evidenze saranno accolte e quali no, Trasimaco ostacola in realtà il dialogo che dice di volere. Trasimaco alza allora ulteriormente la posta e chiede a Socrate:
“E se io ti indicassi, oltre a tutte queste, un’altra risposta migliore riguardo alla giustizia? Quale pena riterresti di meritare?”
“Soltanto quella che spetta a chi non sa, ossia di imparare da chi sa; e questa è appunto la pena che io ritengo di meritare.”
“Sei carino!” disse. “Ma non basta che tu impari: devi anche pagare!”
“Sì, quando avrò soldi”
Imponendo all’interlocutore di “pagare pegno” (cioè in definitiva comprare) per una eventuale risposta migliore che potrebbe formulare durante il dialogo, Trasimaco si dimostra un abile venditore, alla stregua di Protagora36.
Terminato questo scambio di battute, all’insegna dell’aggressione e dell’irrisione, Trasimaco comincia poi ad esporre la teoria secondo la quale la giustizia è l’interesse del più forte. L’interesse, τὸ συμφέρον è il punto nodale della discussione.37 L’argomentazione viene smontata da Socrate nel seguente modo: esiste l’interesse del singolo in quanto tale ed esiste un interesse che è definito come l’interesse di colui che esercita un’arte, una professione (τέχνη): il medico, il matematico, il maestro di grammatica, il demiurgo. Il governante è appunto un demiurgo. Governanti, medici, timonieri non possono avere un interesse che non sia l’interesse dell’arte (τέχνη) che esercitano. E questo interesse è dettato a ciascuna techne dal proprio oggetto: il corpo per la medicina; i cavalli per l’ippica:
Ogni arte controlla e domina l’oggetto a cui si applica [...]. Allora nessuna scienza ricerca e prescrive l’interesse del più forte, bensì quello del più debole e di chi è in posizione subordinata rispetto ad essa.38
Nonostante in un primo tempo Trasimaco sembri ammettere con riluttanza la posizione di Socrate, egli finisce col ribadire poi il suo originario convincimento: i governanti fanno soltanto il proprio interesse e i governati non ne ricavano alcun vantaggio. Anche stavolta, sono le transazioni finanziarie a costituire il modello, ma in modo diverso rispetto a quanto si ricavava dal discorso di Cefalo: l’ingiusto -dice Trasimaco- guadagna più del giusto (come pensava Cremilo). Non si tratta più di volere essere in pari rispetto al prestatore, ma di sopravanzare gli altri, di volere di più per sé.
La replica di Socrate affronta dunque stavolta il versante economico della techne. Cosa fa in realtà il pastore che porta al pascolo il suo gregge senza tenere conto dell’interesse delle pecore, ma in vista di un guadagno personale, ὥσπερ χρηματιστήν, come un “affarista”? Non sta in realtà esercitando la sua arte, bensì quella -altra, con diverso oggetto e diversa funzione- del mercenario. Questa techne, trasversale alle altre, può essere associata alle altre technai, ma non va confusa con esse. Così chi riceve una paga, ricava un utile dal fatto di associare alla propria arte la techne del mercenario, ma così facendo non arreca nessun vantaggio alla propria arte, che potrebbe anche realizzare operando gratuitamente. Lo stipendio non è tratto dalla techne esercitata, ma dalla techne mercenaria che ciascun technites associa alla propria:
[...] la medicina dà la salute e l’arte del mercenario dà lo stipendio, l’arte edilizia costruisce una casa e l’arte del mercenario dà lo stipendio; e ciò vale per le altre arti.39
Si produce così una dissociazione fra le technai e il loro esercizio, da un lato, e la possibilità di arricchimento, dall’altro. Questa è defalcata da ciò che è proprio di ciascuna techne e conglobata in un’unica techne a se stante, definita come techne del mercenario, μισθωτικὴ τέχνη o μισθαρνητική meramente aggiuntiva e inessenziale.
Esercitare un’arte o una techne e guadagnare uno stipendio sono per Socrate cose irrelate fra loro: il paradigma pericleo-aristofanesco ne esce disarticolato. Di più, le technai di per sé potrebbero essere esercitate senza alcun guadagno: il δημιουργός è utile anche ὅταν προῖκα ἐργάζηται “quando lavora gratuitamente”.
Priva di contenuto morale, l’arte di guadagnare uno stipendio resta sostanzialmente impensata e impensabile per Socrate (almeno per il Socrate di Platone; in Senofonte le cose vanno diversamente). Quando Glaucone riprenderà il discorso, ipotizzando una terza specie di beni, di cui farebbero parte le professioni redditizie, utili per il guadagno e gli altri vantaggi che se ne ricavano e non per se stesse, il Socrate che risponderà proponendo l’esame della giustizia nella città ideale40 sarà palesemente diverso, per interessi e per stile argomentativo, dal Socrate del primo libro; sia che ciò rispecchi una differenza fra l’epoca di stesura del primo libro e quella del resto dell’opera, sia che ciò derivi da una evoluzione del personaggio interna all’opera.
Un Socrate diverso -a fortiori- dal Socrate dell’Apologia, la cui povertà non può certo essere estranea al proposito di condurre una vita ‘vera’.41 Senza varcare la soglia del II libro, rinunciando a seguire Platone (e il suo Socrate notturno) desideroso di “assistere alla nascita della giustizia e della ingiustizia”, conviene percorrere la via all’inverso e cercare la povertà inemendabile altrove.
Sulla soglia
Prima di essere il polo negativo di un continuum percorribile da un capo all’altro, e prima di essere il fondo oscuro da cui emerge necessariamente il ventaglio della technai chiamate a scongiurarla, πτωχεία èstata altro. Se la povertà-penía (parzialmente) difesa da Aristofane comporta un certo dinamismo, una tensione; alla mendicità inerisce invece una sorta di insormontabilità, di ineluttabilità, per cui il mendico è -per condizioni soggettive o oggettive di varia natura- impossibilitato a colmare il suo stato di deprivazione.
L’Odissea ci fa conoscere alcune figure di mendici, uno dei quali altri non è se non lo stesso Odisseo, travestito. L’episodio si svolge ad Itaca, al ritorno in patria dell’eroe dopo i vent’anni di avventure e disavventure. Consigliato da Atena, sua protettrice, Odisseo, intende mettere alla prova i pretendenti e penetrare all’interno del suo palazzo da essi occupato, per meglio valutare il modo di attaccare e sconfiggere i suoi nemici. L’aspetto di Odisseo-mendico è l’esito di una trasformazione propiziata dalla dea stessa:
Atena, dicendo così, lo toccò con una sua verga,
Gli fece vizza la bella pelle sulle agili membra,
gli tolse dalla testa i biondi capelli, gli avvolse
tutte le membra con la pelle di un vecchio antico,
fece spenti i suoi occhi prima bellissimi;
gli gettò addosso un povero cencio e una tunica,
laceri sporchi, bruttati di sudicio fumo;
lo vestì con la grossa pelle, logora, d’una cerva
veloce, gli diede un bastone e una vile bisaccia,
tutta lacera: ne era tracolla una corda.42
Così abbigliato, il falso mendico attraversa l’isola e, senza essere riconosciuto, viene condotto al palazzo. Qui i pretendenti di Penelope banchettano e “accattoni, straccioni, schifosi, divoratori di avanzi”, stranieri che nessuno si premurerebbe di invitare come commensale, sono presenza fissa, lamentata da Antino. L’aspetto di Odisseo è documentato dai ceramografi: l’eroe appare invecchiato, calvo, sporco, vestito di cenci stracciati e pelli spelacchiate, una tracolla di corda e una brutta bisaccia, l’immancabile bastone. Anche in altre occasioni Odisseo ha vestito i panni del mendicante. Nel Reso, 710-719, troviamo la seguente descrizione:
una volta Odisseo entrò in città: lo sguardo sfuggente, coperto da un mantello da straccione, ma sotto il mantello teneva una spada. Chiedeva l’elemosina e strisciava come un servo accattone, con il capo grinzoso e sordido.
Si tratta della spedizione di Odisseo a Troia come spia sotto le spoglie di mendico, assente nell’Iliade ma documentata da altre fonti.43 Degno di rilievo è il diverso trattamento che le fonti letterarie e l’iconografia vascolare fanno del precedente omerico relativo ai capelli di Odisseo: nel Reso, il capo “grinzoso e sordido” di Odisseo, sembra un ricordo della trasformazione operata da Atena nell’Odissea nel senso di un invecchiamento della cute; i ceramografi traducono invece il dato come squallore attinente al colore, un ingrigimento della pelle del cranio o dei capelli.44 I capelli, come si vedrà, sono un indice figurativo importante per la questione della povertà.
Per essere un mendico -ci dice l’episodio omerico- occorre far mostra di precise caratteristiche fisiche, ma anche comportamentali.45 Caratteristiche che Odisseo/mendico puntualmente esibisce, “come se fosse stato sempre un pitocco” e che Omero descrive con cura. A partire dalla ‘postura’ del mendico, che entra appoggiandosi al bastone e si mette a sedere “sulla soglia di frassino, di qua dalla porta appoggiandosi allo stipite di cipresso”: egli conosce con precisione il punto esatto in cui deve fermarsi, il modo in cui la propria presenza può manifestar si legittimamente dentro il palazzo, restandone al contempo al margine. Il vescovo Eustazio nel suo commento a questi versi sottolinea come Odisseo sia a tal punto versatile da essere un technites anche come mendicante.46
Questa consumata abilità gestuale ci dice, forse, che πτωχεία è in origine non un momento circoscritto o casuale della vita un uomo, dal quale sia possibile entrare e uscire (e che quindi risulti nuova per colui che vi incappi) bensì un’esperienza permanente, accettata e rigidamente codificata da canoni di comportamento ed autopresentazione che si apprendono per tutta la vita.47 Questa rigidità è appena temperata, in fonti successive, dalla speranza vana di un cambiamento: in Solone “se qualcuno è senza mezzi, e lo opprime la povertà, crede che acquisterà certamente grandi ricchezze”.48 Come il malato e il brutto e come altri lavoratori, anche il povero soloniano è permanentemente “fissato” nella propria condizione: è solo illusione che possa fuoruscire da essa e non c’è abilità o impegno che valga in tal senso.
Fra VII e VI secolo (prima dello sdoppiamento aristofanesco), il mendico condivide col contadino, il tessitore, il metallurgo, il cantore, l’indovino, il medico -i lavori come quelli elencati da Penía- una fragilissima tensione verso il guadagno/ricchezza; a tal punto che il guadagno stesso non sembra affatto l’approdo delle fatiche e dei pericoli di cui è costellata la vita del lavoratore, ma nulla più che un desiderio vago. Lo scopo dell’affanno di tali arcaici portatori di techne, mai raggiunto, è invece interno alle stesse technai praticate: e così al contadino “stanno a cuore (μέλει) i curvi aratri” e al medico “l’opera di Peone dai molti farmaci”;49 senza alcun riferimento al fatto che tali technai siano mezzi per raggiungere uno scopo, un successo possibile, una utilità collettiva, fosse anche -almeno per quelle che lo consentirebbero- il solo auto-sostentamento sobrio e dignitoso rivendicato da Penía come condizione auspicabile per l’uomo.50 Occorrerà, per questo, la povertà dinamica e ‘media’. La πτωχεία condivide dunque, forse paradossalmente, con il lavoro socialmente accettato, una condizione di necessità e ineluttabilità: è necessario e ineluttabile che il mendico sia e resti tale, spinto da una sorta di pulsione profonda non dissimile da quella che spinge altri ad errare sui mari pescosi sfidando i venti; in un affannarsi continuo e privo di pause, di ristori, di riscatti sociali.
“Io ho un testimone, bastevole -credo-, della verità di quel che dico: la povertà”
L’iconografica omerica del mendico, ripresa dai ceramografi, è forse fonte di ispirazione per la rappresentazione caricaturale di una figura che, nella polis di V secolo, mette in crisi proprio la connessione fra lavoro e (dignitoso) sostentamento: il filosofo. Non tutti i filosofi, tuttavia; ma (quasi esclusivamente) la cerchia degli allievi di Socrate e Socrate stesso. La povertà di Socrate è un tema che ha avuto sviluppo quasi esclusivamente comico e caricaturale. È noto come Aristofane abbia dato per primo -nelle Nuvole- un ritratto di Socrate in cui il filosofo appariva miserabile, cencioso, intento a rubare per procurare da mangiare ai discepoli del “Pensatoio”, nonostante quest’ultimo nella stessa commedia sia presentato come luogo di istruzione a pagamento.51
Nell’Apologia di Platone, Socrate si difende dalle accuse di Aristofane e affronta il tema della propria povertà con estrema chiarezza e semplicità: l’indagine che egli ha compiuto, per scoprire se il responso del dio di Delfi -non esservi alcuno più sapiente di Socrate- fosse vero, non gli ha consentito di dedicarsi a faccende pubbliche o private e dunque, egli afferma, “rendere questo servizio (λατρεία) al dio mi ha gettato nella più grande miseria”.52 Poco oltre, Socrate definisce questo servizio come “il bene massimo” che è toccato agli Ateniesi: esso consiste nella persuasione a curarsi dell’anima piuttosto che del corpo o delle ricchezze, perché “Non dalle ricchezze viene la virtù ma dalla virtù le ricchezze”. Ancora più chiaramente, Socrate afferma di essere un dono del dio alla città e ciò si può dedurre dal fatto, quasi inumano,
Che ho trascurato tutti i miei interessi e ormai da tanti anni lascio che vengano trascurati gli affari di casa mia, mentre da anni mi occupo dei vostri [...] se ci guadagnassi qualcosa, elargendo i miei consigli dietro ricompensa, sarebbe comprensibile: ma potete constatare voi stessi che i miei accusatori, in generale così spudorati nelle loro accuse, non hanno potuto permettersi l’impudenza di produrre un solo testimone del fatto che abbia mai ricevuto o preteso compensi. Bastevole testimone della verità delle mie asserzioni, io credo di poter portare la mia povertà.53
La povertà è qui -a ben guardare- non soltanto un effetto, una conseguenza fra le altre dell’aver tralasciato i propri affari per occuparsi della virtù dei concittadini, ma propriamente la forma del comando divino il cui contenuto è la cura degli altri: è il risvolto “non umano” di un’ingiunzione demonica. Vi è un preciso parallelismo fra due importanti aspetti della vita di Socrate: da un lato, l’indagine sul responso ha occupato “tutto il tempo” che altrimenti sarebbe stato dedicato agli affari pubblici e privati; dall’altro il daimonion -la cui presenza in Socrate viene esposta proprio di seguito al passo ora citato- si è fatto sentire sempre per distogliere Socrate da ciò che stava per fare, cioè consigliare la città in pubblico, al cospetto dell’assemblea.54 La vita pubblica e la ricchezza frutto della cura dei propri affari sono, con un medesimo movimento, negati dall’alto (o da dentro), perché esse ostacolerebbero quella che nell’Apologia pare la caratteristica saliente di Socrate: il costante sbilanciamento verso l’azione oblativa, un’ininterrotta propensione a fare interventi a favore (senza mai andare a pareggio).
È il caso di rilevare il lessico lavoristico-agonale usato da Socrate, a cominciare dai termini scelti per designare la sua indagine: πόνος, “fatica”; λατρεία, “servizio”; ὑπερησία, “servizio” (detto di rematori). Ciò che Socrate svolge è “lavoro”, “fatica servile”, “servizio a prezzo” imposto da dio di Delfi; è anche ἀσχολία “occupazione”, “esercizio”.55
Una simile definizione, da una parte, esibisce la stretta connessione fra l’attività socratica e l’idea di un “dovere”, di un “comando”: Socrate non smetterà di dedicarsi alla sua occupazione (ἐπιτήδευμα, 28b), non abbandonerà il suo posto, “dal momento che il dio stabilisce che egli debba vivere (δεῖν ζῆν, 28e) filosofando e interrogando”.56 Filosofare e interrogare sono configurati come una prestazione civica -assimilata a quella dell’oplita nello schieramento- che ha in Socrate un titolare ratificato (“non troverete facilmente un altro come me”),57 ma che risale al dio stesso, il quale opera attraverso di lui come attraverso uno strumento (“il dio [...] usa il mio nome”).58 La λατρεία è così, al tempo stesso, sia una funzione divina che mira a certi effetti -mettere in piazza l’insipienza umana-, sia una modalità soggettiva con cui Socrate pone in essere il comando. La vita di Socrate, strumento animato della volontà di Apollo, scompare nella λατρεία, il suo vivere è un dovere e il suo dovere è un vivere.
Tuttavia, d’altro canto, questo lavoro-esercizio si caratterizza per il suo essere ciò che il lavoro normalmente non è: cioè ininterrotto, che non dà luogo ad alcuna possibile σχολή, “sospensione”, “pausa”: “il dio mi ha attaccato alla città con la funzione di svegliarvi, persuadervi e rimbrottarvi uno per uno, intrufolandomi dovunque incessantemente per tutto il giorno”.59
Per inciso, questa idea di un tempo non scandito da eventi esterni, di natura meteorologica o civica o rituale, ma avvertito come un continuum mi sembra analoga (oltre che al lavoro arcaico di cui si è detto) anche alla “scansione oraria integrale dell’esistenza” di cui parla, in un saggio recente, Giorgio Agamben a proposito del cenobio medievale: se infatti “la novità del cenobio è che, prendendo alla lettera la prescrizione paolina della preghiera incessante [...] esso, attraverso la scansione temporale, trasforma l’intera vita in ufficio”, ciò implica che la possibilità di una scansione oraria riposa sull’idea di un’attività ininterrotta che fa da trama all’ordito delle ore.60 Nel cenobio, nota Agamben, ogni attività, anche quella manuale, è esercitata dal monaco mentre compie la volontà di Dio: il continuum dell’orazione scardina l’alternarsi di “tempi” eterogenei e di passaggi su cui è fondato il tempo ecclesiastico, del rito che interrompe il tempo profano e concentra il sacro in un punto distinto. Il cenobio, conclude Agamben, inventa l’orologium vitae: la scansione di un tempo non ciclico ma continuo in segmenti discreti. Questo continuum della vita cenobitica ha invece, a mio avviso, una storia precedente e risalente appunto a Socrate (ma anche, forse, alla vita dell’Accademia; o alla vita raminga dei Cinici). Da questo punto di vista, il contrasto che si pone fra l’attività di Socrate -la filosofia possiamo ormai dire- e le attività lavorative dei cittadini, non implica soltanto una discontinuità in termini di pubblico/privato, ricchezza/povertà; quanto una differenza fra il lavoro come evento, che inizia e finisce con l’ottenimento del risultato (paga, compenso, salario) e che si contrappone ad una ‘vita’ che si svolge (anche o prevalentemente) altrove, e il lavoro come servizio ininterrotto, come ‘vita’ esso stesso. Solo così è comprensibile che esso non lasci spazio ad altro e che anzi tutto ciò che è altro rispetto ad esso sia interdetto dal daimonion.61
Mentre dunque per i cittadini ateniesi si tratta di persuadersi dell’insalienza delle ricchezze (che pure devono o possono moderatamente possedere) ai fini della virtù; per Socrate si tratta invece di una interdizione radicale che configura un modo di vivere, di trascorrere “l’intera giornata” in un servizio che non consente pausa e che distoglie con forza in-umana da ogni altra preoccupazione.
Dopo Socrate, il filosofo dovrà inevitabilmente porsi il problema della povertà, convivere con essa, ricercarla attivamente, esibirla, ovvero giustificarne l’assenza.
Vita filosofica e povertà: qualche conclusione
Il tema della vera vita come vita di povertà ha un’estensione molto ampia e si ritrova in molte culture, filosofie e soprattutto religioni: le più antiche pratiche ascetiche -ci ricorda il filosofo contemporaneo Peter Sloterdijk- si sviluppano sul fronte della povertà.62
Nel mondo antico, contro il principio che la vita vera non può essere una vita di ricchezza, gioca -secondo Foucault- l’idea per certi versi contraria che la vera vita è la vita dei migliori, dei primi. Da questo conflitto nasce una certa ambiguità nei confronti della povertà: ad essere discriminante è, per molta parte della filosofia antica, non tanto il possesso di ricchezza da parte dell’aspirante alla vera vita, quanto l’atteggiamento da tenere nei confronti di tali ricchezze. Un atteggiamento che deve essere di tranquilla indifferenza: il saggio deve guardare al denaro e alle fortune in modo tale da non soffrire nel caso in cui le perdesse. Il distacco virtuale dalla ricchezza sembra più universalmente accettabile e accettato del rifiuto della ricchezza tout court: quando Seneca consiglia a Lucilio di praticare la povertà, temporaneamente e come esercizio, per educare se stesso al corretto modo di rapportarsi ai piaceri e prepararsi a perderli, non fa che seguire un precetto abbastanza comune e diffuso.63
In questo quadro spicca la vistosa anomalia costituita dalla povertà cinica.64 Anomalia tanto rispetto alla povertà intesa come sobrietà e non attaccamento ai beni, quanto rispetto alla povertà socratica come rinuncia ad occuparsi della ricchezza. Il filosofo cinico, infatti, mette in atto un distacco reale, concreto, fisico dai beni materiali: Diogene Laerzio a proposito di Cratete racconta che egli, convertitosi alla filosofia cinica dopo aver visto il Telefo euripideo, vendette tutti suoi beni ricavandone una somma consistente, che donò ai concittadini di Tebe.65 L’effetto è quello di una spoliazione dell’esistenza: beni, abiti, alimenti, oggetti sono ridotti al minimo. Il bastone, la bisaccia, il mantello, i sandali, una ciotola sono le sole cose indispensabili per il Cinico.66
La povertà cinica va molto oltre il precedente socratico: i Cinici non soltanto rinunciano ad ogni preoccupazione relativa ai beni materiali, alla loro acquisizione e gestione, ma non si accontentano neppure della paupertas socratica, di uno stile di vita sobrio e austero, ma comunque non privo di legami familiari e di pochissimi beni necessari alla sussistenza. Non si tratta di accettare la povertà come forma di un comando divino, ma di “agirla” effettivamente, sperimentarla, praticarla al fine di rendere se stessi migliori, più coraggiosi, resistenti, solidi. La povertà cinica è ricerca continua di povertà sempre maggiore. Spoliazione continua di sé alla ricerca di un sempre maggiore distacco effettivo dai beni, fino all’estremo della dipendenza dagli altri, dell’umiliazione e della prostrazione fisica. Da ogni cosa, anche la più misera, si può cercare -secondo i Cinici- l’affrancamento: anche una ciotola per bere -l’unica stoviglia di cui Diogene si serviva- è inutile e può essere sostituita dalle mani.67 Il disfavore verso la salute fisica e la bellezza corporea acquista lo spessore di una valorizzazione della miseria, dello squallore, della trasandatezza fisica in sé.
Paul Zanker ha mostrato come, nel III secolo a.C., i filosofi siano rappresentati, nelle statue onorarie o nei rilievi funebri, con capelli spettinati e barba irregolare e trascurata (come Odisseo-mendico).68 L’esperienza del pensare, è resa figurativamente con tratti assai simili a quelli che contraddistinguono i mendici o in generale i lavoratori arcaici.69 O, meglio, quando vengono ritratti singoli pensatori, i quali vogliono rendere visibile agli altri la propria identità (di pensatori, appunto), lo scultore non deve far altro che mostrare i segni che tale attività incontrollabile e complessiva imprime nel loro corpo. La deformità dei pensatori, o anche soltanto la loro testa ‘odissiaca’, dice l’indifferenza della techne che esercitano rispetto a problemi di divisione del lavoro, raggiungimento di scopi, integrazione di competenze, modulazione di tempi feriali e festivi.
Lo stoico Crisippo è raffigurato, in una statua seduta tramandata intera in buona replica e in numerose repliche della sola testa, con la fronte rugosa e calva, i capelli corti e la barba con zone senza peli e ciuffi isolati dall’aspetto sgradevole.70 Ateneo ci informa del fatto che
Poiché presso i peripatetici, gli accademici e gli epicurei un taglio accurato di capelli e una barba bene ordinata giocavano un ruolo importante, gli stoici potevano segnalare la loro opposizione mediante i capelli corti e spettinati e la barba trascurata, esplicitando così il loro disprezzo per qualsiasi tipo di cura estetica in quanto non virile.71
La povertà, in conclusione, è stata, in età arcaica e almeno fino a Solone, non un accidente o una sfortunata parentesi nella vita di un uomo, né qualcosa di facilmente oscurabile nell’immagine pubblica di sé. Al contrario, il mendicante sembra, fin dai poemi omerici, qualcuno che esercita una sorta di techne, che conosce alla perfezione -per averli esercitati tutta la vita- i modi, i tempi, i comportamenti, necessari non a fuoriuscire dalla sua condizione ma ad esercitarla nel miglior modo possibile. Diversamente, in Aristofane -in linea con l’ideologia periclea- si può scorgere un’idea nuova di povertà come stimolo, spettro terrificante che alimenta il desiderio di arricchirsi, di lavorare, di emanciparsi dal bisogno. La povertà non è più per i cittadini ateniesi un’esperienza attuale, ineluttabile e generatrice di identità, ma una transizione, il segno di una caduta o di una risalita, qualcosa che è comunque possibile minimizzare, subordinare ad altro. Il povero può concretamente prender parte a nuove esperienze: le feste cittadine, la partecipazione alla vita politica, la fruizione di momenti collettivi di ristoro, in cui può far valere la sua identità di cittadino che sovrasta e ingloba l’eventuale bisogno eventualmente generato da accadimenti contingenti. Benché povero, egli viene allora a differenziarsi dal mendico -con uno sdoppiamento che pare ignoto in età arcaica -a cui si rimprovera in non far niente per emendare la sua situazione, il suo disinteresse per la città.
Quando emerge la figura del filosofo, con Socrate, l’attività del filosofare è pensata in analogia a quella di un portatore arcaico di techne, in parziale continuità col mendico omerico. Ciò per tre fattori, principalmente: diversamente dal povero di età periclea tendente all’emancipazione, il filosofo non può che essere povero, finché pensa; inoltre, ancora a differenza del lavoratore ateniese, ritratto sempre in forme e pose standardizzate, il filosofo porta impressi nel corpo i segni della sua attività di pensatore e viene ritratto/si fa ritrarre -da Socrate in poi- con tali segni, che acquisiscono rilievo distintivo: capelli aggrovigliati,72 corpo lontano dall’ideale atletico, abbigliamento trascurato, pose sbilenche. Infine, anche qui diversamente dal cittadino comune, egli si dedica alla propria attività di pensatore in modo totalizzante, esclusivo e continuativo, dimentico e indifferente (quando non apertamente contrario) ad orari, compensi, riposi.